Inneschi

Una struttura di vetro, scientifica, che potrebbe abitare un laboratorio, contenente elementi chimici, acqua che è mare e aria per il cielo, transustanziati. Si rimestano e fondono attraverso un processo alchemico, che muove il fautore dell’azione verso le stelle. Questa l'origine.
Osservo con attenzione: a fianco del marchingegno, una valigia, che racchiude altre porzioni di acqua e aria, contenute in due ampolle, un monocolo, una cartina con tracciato l'itinerario per raggiungere la città di Goring La, un curioso strumento per orientare le mappe. Non c’è spazio per i souvenir: il bagaglio è un kit di sopravvivenza, raccoglie dentro sé il necessaire fantastico per un viaggio reale. Valigie che sono altrettanti ponti verso mondi possibili, posti appena un passo a lato del nostro quotidiano; risplendono di simboli, cariche di richiami organici, cuori e cordoni ombelicali rosso porpora o carminio, sono il sangue venoso colmo di impurità o quello che sgorga come sorgente chiara dalle arterie, segnate da blu femminei, sorrette da trasparenze aeree vetrose, affermando un hic et nunc che brucia qualsiasi tentazione di spiritualità.
Sono un’affermazione eppure un dialogo aperto: enti attivi, pensati nello svolgersi del tempo, immaginati come compagni di viaggio, da toccare, aprire, usare, rompere, manipolare e reinventare. Lo rivelano le numerose parti di ricambio, presenti in molte valigie, studiate con la meticolosa attenzione dell’ingegnere folle, innamorato della bellezza della macchina. Tutti oggetti accostati e ricombinati secondo regole apparentemente imperscrutabili, che funzionano come dispositivi di desiderio, inquietano, agiscono su chi li possiede con la forza del perturbante.
Affini alle dreamboxes di Joseph Cornell per forza evocativa, ma distanti nella vocazione sovversiva, gli assemblaggi dell'artista piegano l’estetica alla necessità. Maschere antigas di vetro, modellate a mano, perfettamente anatomiche e indossabili, ami e mulinelli, anacronistiche protesi di occhi, dardi, trottole e arti di bambola, rossetti, fotografie, organi vetrificati, piantine della volta celeste, carillon smontati, una nomenclatura di cose che generano senso, attratte come magneti l’una dall’altra. Sono oggetti cercati, questi, che provengono da luoghi e tempi diversi; viaggiatori a loro volta, conservano la loro polvere e le vicende di una storia collettiva, che riecheggiano spietate e struggenti dinanzi a chi cerca con esse un dialogo.

Si tratta di sopravvivenze: l’opera di Rossella Roli, impudica, dismette ogni vanità e intraprende un’ascesa verso la vetta della montagna, verso altri spazi temporali, negli inferi della memoria. Non ci sono oggetti, infatti, slegati dall’azione del ricordare, essi sono naturalmente connotati come macchine del tempo. Materni nel loro proteggerci dall’horror vacui, sono presenze in prima istanza rassicuranti, capaci di ancorarci al reale, talvolta taumaturgiche.
Scavalcando l’idea che l’opera d’arte - in particolare quella che ha a che fare con la scultura - necessiti di un luogo fisico determinato con cui discorrere e infrangendo la regola aurea che la vuole sacra, intoccabile, elemento ieratico quando avvolto in fumi metafisici, o semplicemente cinico, quando più connotato di allure contemporanea, l'assemblaggio di Rossella Roli invece è audace nel rinunciare ad uno status prestabilito, non ha paura di essere dipendente dal fruitore, di farsi cosa d’uso quotidiano.

Eppure, ogni valigia è uno strumento di salvataggio, una dichiarazione di guerra all’oblio.
Non c’è possibilità di rimozione o di stasi, tutto è azione, un corpo di soldato animato da quell’Eros terribile che non ha requie e incessantemente cerca, condannato da un desiderio inappagabile, così come cantato nella “Supplica a mia madre” di Pier Paolo Pasolini:

“Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.”

Questa spinta inesausta verso l'oggetto di un desiderio sempre mancante sembra arginata, distillata ed infine elevata dal mestiere dell’artigiano che non lascia spazio al caso e tutto orchestra, con rigore e saggezza: un mestiere di orologiaio, nella cura infinita riservata al più piccolo dettaglio di ogni opera, che si tratti del tono di pigmento che abita la Porzionatrice o del tessuto che riveste il letto di una casa di bambole.

Si tratta di opere sconvenienti, nel loro rivolgersi con il “tu” a chiunque. Ho guardato nella prima valigia, e ho scorto ricordi di viaggi mai fatti e slanci verso l’ignoto, adolescenti; nella seconda, un imbarazzo, e un ricordo di amore difficile, aspro. Ho aperto la terza valigia e ci ho trovato mio padre. Ho provato ad essere scientifica, immune, ma ho dovuto arrendermi. Certo, le opere partono da un dato biografico ma la forza centripeta con cui si allargano travolge inesorabilmente chi si affaccia sull’orlo di quei contenitori aperti, foreste di segni pervenute dalle acque profonde dell’inconscio collettivo e lì sempre ritornanti.
Come le scarpette di rubino (in argento, in origine) permettono a Dorothy di saltare nel fantastico mondo di Oz, gli objets recherchés di Rossella Roli ci accompagnano verso un altrove che è una forma di reale inaspettata, un evento in potenza che si attua, un ritrovamento.
Come porte regali, come velli d'oro o chiavi blu disseminate su strade perdute, questi oggetti sono doni che ci invitano ad un tragitto iniziatico, il richiamo potente ad un procedere inesausto verso e oltre l'arcobaleno, la fame di una domanda che si ripeterà incessante, anche senza trovare risposta.

Silvia Bottani

2009
Survivals
a cura di Silvia Bottani
Galleria Obraz Milano